Truffe al CBD: compriamo davvero quello che dicono di venderci?

Truffe al CBD: COMPRIAMO DAVVERO QUELLO CHE DICONO DI VENDERCI? Il lato oscuro del nuovo mercato della Cannabis.

L’arrivo nel Cannabusiness di attori ed agenti completamente estranei in precedenza porta con sé non solo l’eccellenza, che sa emergere, ma anche la sua buona dose di truffatori, che per intenderci ha già stancato.

Questo ambiente è sempre stato caratterizzato da un certo tipo di atmosfera e da una crescita costante nel tempo, anche se non particolarmente celere, che hanno accompagnato gli anni in cui ci si conosceva tutti e i nuovi arrivi erano sempre ben accolti, in quanto si trattava prevalentemente di persone veramente appassionate.

Con questa improvvisa esplosione del mercato, sono arrivati anche le prime truffe e i primi problemi di carattere economico (fatture non pagate e/o merce non consegnata), e i primi episodi di minacce e violenza, tra persone truffate che cercano di incontrare i truffatori in qualsiasi modo, per finire alla prima fiera italiana dell’anno che ha visto letteralmente volare schiaffi in faccia per problemi societari e testate per questioni di consegne non conformi e soldi non corrisposti.

Storicamente, la truffa più grande che ricordo in questo settore, risalente ad una decina di anni fa e quindi molto prima dell’odierno boom, riguardò la fornitura di semi autofiorenti ad un grossista e si trattò di un caso molto isolato. Il produttore fornì ben due batch di semi che non erano autofiorenti, ma dichiarati come tali. A quel tempo furono fatti i test di germinazione (per controllarne la qualità) e quando ci si accorse che non erano autofiorenti era già troppo tardi. I semi erano già stati distribuiti ai negozi specializzati che li hanno venduti ai clienti, che si sono ritrovati in mano un seme da collezione che non era del tipo scelto. In quelle occasioni diversi clienti si rifecero sui negozi, che altro non potevano fare che rivalersi sul grossista, primo danneggiato della catena.

La nostra redazione, purtroppo, non è stata esente da questo genere di problemi, anche se solo di natura economica e di immagine: oltre ad aver avuto come clienti aziende che hanno interrotto la sponsorizzazione improvvisamente, avendo usufruito di particolari condizioni e che poi non hanno pagato il corrispettivo dovuto, abbiamo dato spazio e visibilità a persone ed aziende che nel migliore dei casi hanno voltato le spalle a noi, non mantenendo promesse godendosi la visibilità regalatagli e addirittura in certi casi cercando di metterci in cattiva luce,

mentre nei casi peggiori si è trattato di attività che non stanno vendendo ciò che dichiarano, il che costituisce un problema molto, ma molto grave, soprattutto per la truffa ai danni delle persone che comprano quel prodotto e alla pianta che viene nuovamente screditata.

Tornando ai giorni d’oggi, diverse voci hanno iniziato a circolare voci fin dall’inizio del 2017, ad esempio, sul caso dell’olio al CBD (Cannabidiolo, il Cannabinoide al momento più conosciuto insieme al THC).

Si tratta, ricordiamo, di una percentuale variabile di CBD isolato in cristalli, oppure contenuta all’interno di un fitocomplesso estratto dal fiore (e già non si capisce perché non si titolino tutti i cannabinoidi presenti, ma soltanto uno o due) miscelato in un qualsiasi olio commestibile, quali ad esempio olio di oliva, di semi di Canapa, di vinacciolo, di cocco e via dicendo.

Le varie voci riportano che addirittura nessun olio in commercio contiene la titolazione esatta di CBD, (analisi alla mano) anche se in questo caso può essere un’esagerazione, in quanto alcuni oli provati da chi scrive sembrano contenere quel che riportano in etichetta e hanno sortito gli effetti attesi.

Alcuni imprenditori di propria iniziativa hanno provato a far analizzare campionature di diversi prodotti e in alcuni casi si è riscontrata l’assoluta indecenza del prodotto, che da etichetta riporta un’informazione che non solo non coincide con la realtà, ma a volte è persino decuplicata.

Ora, al di là del fatto di poter “giocare” con le etichette titolando un 10% di CBD quando in realtà il contenuto è il 10% di fitocomplesso (che al suo interno ha una percentuale variabile di CBD), arrivare a dichiarare un contenuto di ben 10 volte inferiore rasenta l’essere criminali, almeno dal punto di vista di chi scrive.

Stiamo parlando di prodotti che si stanno affacciando ora su di un mercato che manca di regole – e queste truffe ne sono i primissimi risultati – prodotti che rischiano di vedere rovinato il lavoro e gli investimenti di centinaia di persone che stanno impiegando tempo e risorse con passione perché hanno visto con i propri occhi che questi prodotti funzionano, se correttamente ed onestamente preparati e venduti.

Inoltre se ci aggiungiamo il fatto che essendo prodotti che hanno subito una lavorazione (decarbossilazione, estrazione, diluizione) il più delle volte possono degradare facilmente, se non conservati con le dovute cautele. Se questo non viene fatto sin dalla produzione, è poco probabile che questa informazione venga trasmessa accompagnandola al prodotto fino alle mani del consumatore.

Un mercato senza regole porta a questa situazione confusionale dalla quale potrà essere faticoso uscire in quanto una buona fetta della clientela potenziale, che ha provato una volta questi prodotti, può anche decidere di etichettarli come non validi e non prenderli più in considerazione.

Un aiuto potrebbe venire dall’istituzione di un sistema regolamentato per svolgere le analisi, che ad esempio potrebbero essere “gestite” da agenti esterni. Per ovviare alla “truffa del campione” di test, ovvero il far analizzare un esemplare carico di cannabinoidi – aggiunti – per avere un bel risultato da diffondere, mentre sul prodotto effettivamente venduto non sono presenti tali percentuali, si potrebbe istituire un sistema di controllo in diverse fasi di produzione o pre-vendita, dove a scegliere casualmente il campione non è chi lo vende, ma chi lo deve analizzare o un agente terzo.

Anche in questo caso urge una regolamentazione, perché al momento le sole vie per avere una certezza sono il fidarsi delle analisi fornite (dove, oltre a poterci essere scritta qualsiasi cosa, potrebbero essere frutto delle suddette alterazioni sul campione) oppure far analizzare in proprio il prodotto, soluzione che farebbe lievitare il prezzo finale del prodotto.

Questo tipo di truffa, purtroppo, pare essere diffusa anche all’estero (da dove provengono in effetti alcuni famosi marchi di olio al CBD venduti in Italia): ci hanno segnalato ad esempio un acquisto di olio da parte di un’azienda italiana attiva in Spagna che si è rivolta ad un fornitore scozzese, che quindi abbisognava di un prodotto specifico come materia prima per lavorare: anche in questo caso, come da prassi dell’era di internet, il cliente ha pagato in anticipo e ricevuto una merce che non era adatta allo scopo (in quanto la percentuale di CBD era inferiore), e rientrare della spesa in questo caso è pressoché impossibile. L’imprevisto in questione ha provocato l’effetto domino che ha avuto ripercussioni su tutto il mercato, portando con sé oltre al danno economico anche un danno d’immagine ad una o più aziende che si sono trovate ad operare con tali prodotti di bassa qualità.

Nel caso specifico, chi produce olio al CBD di qualità, riesce a rientrare delle spese con un certo margine di guadagno; mentre per chi truffa è tutto oro che cola.

Al momento, è difficile per i negozianti stabilire quali prodotti possano essere “conformi” e quali no, nonostante prezzi troppo bassi all’ingrosso rispetto ad altri possano rappresentare dei campanelli d’allarme.

Per le infiorescenze la situazione sembra migliore, ma a volte non si discosta di molto: se queste non vengono acquistate e selezionate con le dovute competenze si rischia di trovarsi a vendere cose che non sono propriamente idonee al consumo perché degradate o di pessimo gusto.

Ho assistito a diversi casi in cui le persone si sono stupite di un certo tipo di qualità di infiorescenze trovata in un negozio, sostenendo “ma questa è buona”. Chiedendo spiegazioni, ci si rende conto che in altri contesti di vendita non essendo le infiorescenze il prodotto cardine ma semplicemente un contorno per fare soldi, non sempre si trova una qualità elevata, ma soprattutto non viene venduto con la conoscenza (e la passione) che questo genere di prodotto si meriterebbe.

Tra tutto questo inoltre ci sono stati segnalati alcuni casi simili a quelli dell’olio, in cui i fiori destinati alle analisi sono stati irrorati di acqua e CBD in cristalli e successivamente essiccati di nuovo per avere un titolo maggiore di CBD… Alcuni livelli rasentano l’impossibile, con percentuali di CBD attorno al 30%, tanto da costringere a ripetere più di cinque volte il processo di analisi, che ha dato sempre lo stesso risultato.

Un’altra truffa che ci hanno segnalato in redazione ha riguardato l’importazione di infiorescenze dalla Svizzera, fatte volutamente sequestrare in dogana all’ingresso in Italia. Il mediatore ha comprato una qualità inferiore a quella chiesta dal proprio cliente (pagandola ovviamente meno) confidando sul fatto che il cliente stesso non avrebbe chiesto il dissequestro della Cannabis light. Purtroppo per lui ciò non è avvenuto e quando il cliente ha ottenuto la propria merce, ha scoperto la fregatura.

Sempre in tema di fiori, dobbiamo anche segnalare la situazione, parecchio sregolata, della fornitura di semi certificati o di talee. Il problema di chi comincia a coltivare Cannabis industriale per la prima volta nella maggior parte dei casi ancora non ha il focus e nemmeno l’esperienza su questa pianta per capire al momento giusto se ci sono o potranno sorgere problemi, ed individuarne in tempo le cause e le relative soluzioni.

La truffa più clamorosa ha come protagoniste due novelle realtà aziendali che hanno ricevuto delle piantine da seme, al posto di talee. I coltivatori, essendo alle prime armi non si sono accorti nell’immediato di questo particolare.

In questo caso, oltre a munirsi di genetiche utili e adatte al proprio scopo, potrebbero entrare in gioco le figure dei consulenti di coltivazione, ma in Italia vi sono alcuni ostacoli non trascurabili:

da una parte il contadino che non vuole pagare per una consulenza, ma vorrebbe un consiglio di coltivazione (ovviamente a titolo gratuito) e dall’altra a volte – e sottolineiamo a volte – la difficoltà sta proprio nel trovare un consulente veramente preparato che possa dare le informazioni giuste al momento giusto.

Durante la stagione 2018 si sono verificati diversi problemi, tra piante che non hanno reso quanto dovuto fino al mancato ritiro da parte di chi ha preso impegni ad inizio anno. I canapicoltori, nel migliore dei casi, si sono ritrovati con un raccolto che non sapevano come lavorare e conservare, e nel peggiore dei casi hanno perso il raccolto per la mancata assistenza, promessa inizialmente, nelle ultime fasi della coltivazione.

Avete rotto il cazzo. Non c’è posto per questo genere di attività in questo settore: la pianta di Cannabis merita un ragguardevole rispetto!

Commercializzando prodotti fasulli e farlocchi, oltre al danno economico e al mancato benessere delle persone che li assumono, si fa un ulteriore e pesante danno d’immagine nei confronti della pianta.

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